Elogio della fragilità

Non possiamo negare che la nostra cultura, nonché la nostra crescita sia costellata dalle “ingiunzioni” all’essere forti: “Non abbatterti; su con la vita”; sii forte; “non piangere”; “reagisci”; “non essere un bambino/a”.

Slogan appartenente ad una cultura che spinge verso un carattere forte e poi poco importa che si struttura lo stile narcisista.

Si prenda atto che se ciò che conta è la rappresentazione di se grandiosa, vedi l’impatto delle visibilità nei social e nei diversi talk show televisivi, dall’altro, si oscura e passa per fragilità la sensibilità, l’emotività. Molto facilmente il mondo della vita emotiva e sentimentale, dell’empatia e della vulnerabilità passa per debolezza dell’io. E ahimè anche una certa popolazione di noi professionisti della salute mentale resta intrappolato dalla cultura dominante, a tal punto che sempre più professionisti mettono su corsi su come “essere forti”, “come essere felici”, “come essere efficienti” “come ottenere il meglio da se” ecc….

Per non parlare dei nuovi manuali di patologia mentale (DSM-5, PDM2) in cui funzionamento della personalità ruota intorno agli elementi dell’IDENTITÁ descritta come esperienza di sé unica, stabilità dell’autostima, precisione di auto-valutazione e capacità di regolazione emotiva; AUTODIREZIONALITÁ descritta come capacità di perseguire obiettivi coerenti e significativi che permettano di acquisire il senso delle proprie capacità e anche dei propri limiti; EMPATIA  descritta come comprensione e apprezzamento delle esperienze altrui e tolleranza al diverso; INTIMITÁ descritta come profonda durata della relazione positiva con gli altri. Siamo sicuri che anche noi addetti ai lavori, non ci confondiamo? Che ne è della fragilità insita nella natura umana?

Quale senso alle parole di Paolo: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo” (2Cor 12,9). E se i numerosi blocchi emotivi, della debolezza e fragilità, non fossero altro che modi e modalità di apprendimento per imparare a risorgere ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, ogni attimo dall’umana fatica? Forse quello che manca all’uomo di oggi, che si definisce impeccabile, è proprio la capacità di risorgere dalle rovine.

Noi psicologi la chiamiamo resilienza. Inconsciamente lottiamo per aderire alla logica delle ingiunzioni parentali e culturali dell’essere forti. Più lottiamo più accentuiamo, senza volerlo, la paura della fragilità. Ma attenzione perché la fragilità ha diversi volti e risvolti tra cui quello di manifestarci le nostre zone d’ombra, le nostre paure e i nostri timori. E ogni psicologo psicoterapeuta non può negare uno dei concetti fondamentali della psicoterapia junghiana: l’ombra.

Concetto centrale in Jung per definire l’altro fondamento della sua psicologia: il processo d’individuazione, possibile a chi entra in contatto e riconosce le sue ombre. Certamente non è un processo facile poiché significa venire a patti con ciò che ci appare privo di senso, doloroso e inconcepile. “Non si diventa illuminati perché ci si immagina qualcosa di chiaro, ma perché si rende cosciente l’oscuro” (JUNG C, G. Opere Vol. 13 pag. 291).

Molto facilmente ci percepiamo fragili e cadiamo in uno stato depressivo, ci percepiamo di aver sbagliato una commissione, un impegno e crolla l’autostima. Eppure è un dato dell’antropologia biblica che Dio mette l’uomo di fronte alla sofferenza proprio per farlo risorgere.

Chiunque ha letto libro di Giobbe si pone dinnanzi ad una incomprensibile visione di sofferenze e disgrazie, che Dio manda a Giobbe, ma questi non ha paura di sentirsi debole e fragile, da esse trae la forza per interrogare Dio fino al punto di resistere nella fragilità raggiungendo uno stato interiore degno di morire sazio degli anni: «Dopo tutto questo, Giobbe visse ancora centoquarant’anni e vide figli e nipoti di quattro generazioni. Poi Giobbe morì, vecchio e sazio di giorni» (Gb 42, 16-17).

Certo la debolezza non è piacevole ma nemmeno deve farci paura perché ogni paura sminuisce la forza della fragilità. Nel famoso saggio “Risposta a Giobbe”(1952), di Carl Gustav Jung (1875 –1961), sembra voglia sottolineare la psicologia della debolezza. Per diventare “uomo” bisogna passare necessariamente per la fragilità! Oggi vogliamo eliminarla, negarla, non vederla non prenderne atto e lottiamo e giochiamo ad essere forti. Ma è proprio nella contraddizione a questa logica che le Beatitudini di Gesù diventano la psicoterapia del cuore dell’uomo moderno incapace di entrare in contatto con le proprie fragilità e debolezze  (Riccardi. P., Psicoterapia del cuore e beatitudini ed Cittadella Assisi 2018).

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