L’autostima come fattore di vulnerabilità nei disturbi alimentari

I fattori di vulnerabilità sono peculiarità associate a tipici tratti della personalità che alterano, in maniera più o meno determinante il livello di consapevolezza di sé, che può sfociare in un’autosvalutazione.

Il “nucleo” caratterizzante un disturbo del comportamento alimentare (DCA) è costituito dall’importanza attribuita al peso e alla forma corporea (Cooper & Fairburn, 1993) e da fattori quali ansia, impulsività, ossessività, perfezionismo, insoddisfazione corporea, interiorizzazione di ideali di magrezza e pressioni esterne (Wilksch & Wade, 2010).

Diverse sono, infatti, le ricerche che dimostrano che l’individuo con un DCA possiede un basso livello di autostima e di insoddisfazione corporea, determinato da un insieme di “credenze disfunzionali e sentimenti negativi circa il proprio peso e la propria forma fisica”.

Inoltre sembra che, sia nello sviluppo che nel mantenimento del disturbo, vi sia una difficoltà di regolazione emotiva che solitamente si sviluppa attraverso i processi di socializzazione-relazione ed, in particolar modo, attraverso il feedback dei genitori, in risposta alle emozioni dei figli. I genitori, infatti, hanno diverse reazioni: possono rimanere sconcertati, incoraggiare o ignorare il figlio.

Uno studio di Buckholdt, Parra e Jobe-Shields del 2010 analizza come sia un fattore perpetuante un DCA nei figli, la percezione da parte dei genitori delle risposte alle emozioni, soprattutto di tristezza e rabbia.
Questo lavoro, compiuto su un gruppo di studenti che presentavano difficoltà nella regolazione emotiva e DCA, dimostra che genitori che esaltano in maniera esagerata le emozioni, in particolare la tristezza, possono indurre i figli ad una difficoltà di controllare le stesse, generando comportamenti di controllo del peso o binge eating disorder.

Questo avviene perché, la reazione eccessiva da parte dei genitori comunica l’incomprensione da parte di questi, di ciò che il figlio ha voluto esprimere causando una disregolazione emotiva. I figli, quindi, esiteranno nel mostrare le loro emozioni e potrebbero ricorrere alle abbuffate come sfogo espressivo.Oltre alle emozioni, l’AUTOSTIMA è un elemento che riveste un ruolo importantissimo nel determinare un DCA. Secondo la definizione di Bruch, infatti, il proprio corpo viene percepito come inadeguato e sopraffatto da un “senso di inefficacia paralizzante” e di vuoto (Jacobi, Hayward, De Zwaan, Kraemer & Agras, 2004).

L’autostima dipende, oltre che dal controllo individuale, anche da fattori esterni, non controllabili dal soggetto in prima persona. Un individuo, quindi, per ristabilire la sua autostima, impiega tutti i suoi sforzi nell’unico campo il cui controllo dipende esclusivamente da se stesso: il proprio corpo. Riuscire a controllarlo di fronte allo stimolo della fame o con l’utilizzo di comportamenti compensatori, aumenta il livello di accettazione di sé e, di conseguenza, l’autostima.

Uno studio, a cura di Wiseman, Peltzman, Halmi e Sunday, effettuato su un gruppo di studenti maschi e femmine di 11 – 13 anni circa, ha esaminato la ricerca della magrezza e l’insoddisfazione corporea in relazione all’autostima.

L’ipotesi di partenza prevedeva una maggior incidenza di tali caratteristiche nel sesso femminile, visti anche i risultati di ricerche precedenti.

Tuttavia si è visto che:
• per entrambi i sessi l’autostima è negativamente correlata con l’insoddisfazione corporea;
• l’indice di massa corporea è correlato positivamente con l’insoddisfazione corporea;
• il rapporto autostima – ricerca della magrezza si differenzia nei due sessi: i maschi con un maggior indice di massa corporea

presentano livelli elevati di ricerca della magrezza a differenza di quelli con un indice di massa corporea minore; nelle femmine, la ricerca della magrezza non è correlata al peso.

Un basso livello di autostima porta il soggetto a sottovalutare l’esito delle proprie azioni e a sentirsi incompetente in aree considerate importanti. In particolare l’adolescenza è il periodo di maggiore vulnerabilità, età in cui un’autovalutazione di sé positiva, dipende da una molteplicità di dimensioni, tra cui la necessità di avere competenze elevate in specifiche aree. Si dimostra, infatti come ragazzi di 12 – 14 anni con disturbo alimentare si sentono meno validi nella realizzazione di determinate attività (Gustafsson, Edlund, Kjellin & Norring, 2009).

Il perfezionismo è una delle conseguenze dei sentimenti di inefficacia delle proprie azioni. Il suo ruolo non può allontanarsi dal contesto socioculturale nel quale è inserito, poiché la posizione che il soggetto occupa nella società dipende dal valore da essa attribuitogli.

La cultura moderna impone dei canoni estetici e comportamentali fortemente stereotipati e impossibili da raggiungere, che sono diventati ormai, negli ultimi anni, l’unico metro di valutazione e simbolo di popolarità. In particolare, i canoni imposti per la donna ricoprono sia la sfera corporea, sia quella relazionale e affettivo-familiare. La donna è pertanto maggiormente soggetta a sviluppare comportamenti perfezionistici al fine di raggiungere tali traguardi.

Sono stati individuati due tipi di perfezionismo, che, combinati tra di loro, perpetuano l’insorgere e il mantenimento del disturbo alimentare: si parla di perfezionismo rispetto alle preoccupazioni di valutazione (EC) e perfezionismo riguardo agli standard personali (PS).
La ricerca compiuta da Boone, Soenens, Braet & Goossens nel 2010 dimostra, in particolare, che solo il primo tipo di perfezionismo è importante predittore del disturbo e non il secondo.
Si è ipotizzata, infine, anche, a livello psicobiologico, l’esistenza di una connessione fra tratti perfezionistici ed alterazioni nell’attività della serotonina (Jacobi, Hayward, De Zwaan, Kraemer & Agras, 2004).

Anche se poche ricerche si sono interessate della questione, alcuni studi hanno analizzato il possibile ruolo delle strategie di coping in relazione ai disturbi alimentari. Si può sostenere che le anoressiche o le bulimiche, tendono ad utilizzare strategie di coping per evitare o fronteggiare il problema e le emozioni da esso generate (Denisoff & Endler, 2000).

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  1. Laura Alberico ha detto:

    I neuroni specchio in fase neonatale hanno, come lo stesso nome esprime, funzione di “rispecchiamento”. Il bambino impara presto attraverso i genitori a conoscere e a riconoscersi nelle emozioni; la trasmissione di questo imprinting è fondamentale per dare rinforzo ai sentimenti positivi che influenzano soprattutto l’autostima.

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