L’illusione dell’intimità tra bisogno di contatto e carezze

Tra gli anni ’50 e ’60 l’economia attraversa un periodo di sviluppo l’industriale e tecnologico; le grandi multinazionali crescono e di conseguenza i beni di consumo aumentano.

Sono questi i tempi della nascente cultura capitalistica. Nascono, come reazione, gruppi intellettuali critici e nell’occasione la fanno da padrone i “situazionisti” che definiscono la cultura capitalistica “società dello spettacolo”.

Presupposto dei “situazionisti” è che i media pubblicizzano prodotti e beni di consumo che “stupidiscono e controllano i desideri del pubblico” (Quartirolo I., Intenet e l’Io diviso Bollati Boringhieri 2013).  A distanza di circa 60 anni siamo nell’era digitale dove i media, i social net possono controllare le emozioni, i sentimenti e i desideri del pubblico. Basta fare una ricerca di un prodotto da un motore di ricerca e la stessa pubblicità del prodotto la si ritrova sulla propria mail o altro.

Lasciandoci credere che la soddisfazione del desiderio passi attraverso la consumazione del prodotto. L’obiettivo, attenzione, è l’emozione associata al desiderio che viene trasformata in prodotto di consumo (Riccardi P., Psicoterapia del cuore e Beatitudini ed Cittadella Assisi 2018).

A distanza di circa 60 anni è ancora possibile parlare di “società dello spettacolo” dove si assiste ad una spettacolarizzazione dei propri sentimenti, del mettersi in piazza, del giocare con i sentimenti. Non è difficile leggere dai social e vedere in tv spettacoli dove vi è una drammatizzazione del proprio mondo emotivo. Non è questa l’intimità. Intimità è la sensazione del sentirsi accolti, protetti, liberi di esprimersi e, il sapere stare in intimità, è la sensazione di scavalcare il proprio io egoista ed egocentrico per darci, aprirci e mettersi a nudo. L’intimità significa “franca, immediata espressione di sé” afferma lo psichiatra Eric Berne (Berne E., “A che gioco giochiamo?). L’intimità è un’esigenza irrinunciabile dell’amore e della vita di relazione autentica.

È una qualità fondamentale della maturità umana, della personalità sana che sa “essere in relazione”. Non è un caso che per lo psichiatra Eric Berne molta della patologia relazionale serve ad evitare l’intimità. Ma quando questa viene messa in pubblico, sui social e sui vari media, la vita di relazione diventa spettacolarizzazione dei sentimenti e non intimità autentica. Sempre più Talk show e piattaforme multimediali sono orientati a presentare, evidenziare, dimostrare sentimenti al pubblico solo per la logica di audience.

Ciò che interessa è il profitto dei dati auditel. Non è un mistero se quegli aspetti della intimità autentica sostenuta da un genuino bisogno di contatto, di carezza, di riconoscimento (Berne E., Ciao e ….. poi? Bompiani 1979) diventano prodotti di mercato. Il contatto fisico dell’abbraccio viene trasformato dal simbolismo del like; il bisogno di coccole viene trasformato in rappresentazione della quantità di contatti visualizzati; il bisogno di riconoscimento traslato dal clic dei followers. Recenti studi sottolineano il ruolo dell’ormone e neurotrasmettitore “ossitocina” in stretta correlazione con il contatto fisico non a caso ridefinito come ormone dell’amore. E che dire delle ricerche scientifiche che correlano l’ossitocina a disordini di personalità, depressione e psicosi (Quartirolo I., ibidem).

Una carezza, un abbraccio sentito stimola la produzione dell’ossitocina. Aspetti bio-fisici, psicologici ed esistenziali della carezza diventano necessari alla salute psicofisica. Pur riconoscendo il ruolo e l’importanza della rete bisogna fare attenzione a non cadere nella trappola delle carezze finte che alimentano intimità false. Ciascun essere umano ha bisogno che gli venga riconosciuto un posto nel mondo, un senso, un valore da un’altra persona.

Attraverso la presenza accogliente di cure, premure e amore che trova espressione manifesta in quello che lo psichiatra Berne ha definito “carezza”. La carezza (stroke) è uno dei concetti più affascinanti dello psichiatra canadese Eric Berne che negli anni ’50 la contraddistinguere come l’unità di riconoscimento sociale (Berne E., Ciao e …. poi? Bompiani 1979) per rievocare il bisogno di contatto fisico a partire dagli infanti. Come quando ad esempio c’è chi lo bacia, lo prende in braccio, lo coccola gli dà un pizzicotto. […] Per estensione, da grandi, aneliamo ancora ad un contatto fisico che appaghi anche la dimensione psicoaffettiva ed esistenziale ed anche se impariamo a sostituirlo con forme simboliche di riconoscimento, ci sentiamo deprivati se non riceviamo le carezze autentiche come quando ci sentiamo dire “che piacere vederti” ma con tono ed espressione indifferente. Sono queste carezze non autentiche di plastica che alimentano un vuoto interiore che trova compensazione in un l’io narciso o della cultura dell’immagine. Nella moderna società dei media, dei social, dell’uomo tecnologico e internettiano siamo sollecitati da una “tensione” mascherata verso il culto dell’apparire (Riccardi P., ogni vita è una vocazione ed. Cittadella Assisi 2014).

Preoccupazione generale dell’individuo è essere visibile, apparire su un social, avere centinaia di like di “mi piace” su facebook, avere centinaia e migliaia di visualizzazioni su istagram o you tube a tutti i costi.   Attenzione a non farci carezze di plastica che rinforzano l’ingiunzione del “non essere autentici”.

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