Perché la scuola sta rinunciando a educare i nostri figli e come dobbiamo rimediare

In un recente articolo di D.repubblica.it, Eleonora Giovinazzo si è interessata delle osservazioni del pedagogista Daniele Novara che in un recente libro “Non è colpa dei bambini. Perché la scuola sta rinunciando a educare i nostri figli e come dobbiamo rimediare” solleva dubbi sulla fondatezza delle diagnosi delle numerose certificazioni, non in linea con le statistiche internazionali.

L’autore sosterrebbe che vi sia la tendenza a diagnosticare invece che educare; “stiamo sostituendo la psichiatria all’educazione”, “la mia impressione è che nel dubbio si scelga la via della certificazione, quasi per non correre rischi, quasi per non lasciare i genitori senza “una risposta”.

Mi sento di prendere le distanze da queste considerazioni.

Se da un lato è evidente l’aumento delle certificazioni e delle diagnosi questo non si deve a mio avviso ad una rinuncia dei processi educativi. Spesso anzi gli insegnanti faticano ancora a riconoscere e segnalare le difficoltà specifiche di apprendimento o comportamentali. Semmai il dato si deve ad una maggiore consapevolezza ed una maggiore sensibilità del disagio scolastico, che spesso trova risposte in difficoltà oggettive. Oggettive, misurabili, certe.

Nessun operatore ha interesse a diagnosticare un disturbo che non c’è. Questa a mio avviso è una affermazione molto grave. L’autore sembra ipotizzare un uso ansiolitico della diagnosi, con lo scopo di sedare insegnanti e famiglie senza guardare ai veri bisogni educativi del bambino.

Fare diagnosi non significa questo. Significa riconoscere le difficoltà specifiche, e aiutare scuola famiglia e bambino a comprendere la natura delle stesse, introducendo misure compensative e dispensative che consentano di vivere il momento scuola per quello che è, ovvero una opportunità e non un momento di disagio, un problema.

Se è vero che il bambino alle prese con queste misure può vivere momenti di disagio con i pari e subire il peso di questo etichettamento, non vedo vantaggio però in termini di autostima ed autoefficacia, ad affrontare con gravi difficoltà e senso di incapacità le richieste scolastiche.

Nel passato, questi bambini non diagnosticati, tendevano a fuoriuscire in modo prematuro dal percorso formativo, inserendosi anticipatamente nel mondo del lavoro, riducendo le proprie possibilità di scelta e limitando la progettualità futura.

Invece sono sempre più numerosi i ragazzi con difficoltà specifiche di apprendimento che riescono ad affrontare con successo il proprio percorso formativo, anche universitario, inserendosi con efficacia nel mondo del lavoro. Un successo dovuto alla sensibilità dei formatori, della famiglia e alla volontà del giovane.

Forse quello su cui non investiamo abbastanza è la diffusione di una cultura della tolleranza ed integrazione, dove le singole particolarità ed abilità possano essere valorizzate e spese per il gruppo.

In questa cultura che esalta competitività e discriminazione è difficile pensare percorsi educativi di buon esito, a prescindere dalla presenza o assenza di diagnosi.

 

 

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