Ri-trovarsi

Performance, produttività, efficienza ed efficacia, pare siano i parametri del concetto in voga, da un pò di anni a questa parte, nella nostra cultura.

A contribuire, non solo le logiche socio-politiche-economiche ma anche quelle psicologiche. Il termine che meglio esprime i parametri, di cui sopra citati, passa per la dicitura di Empowerment, termine che indica un processo di crescita, individuale e di gruppo basato sull’autostima, sull’autoefficacia, sulla capitalizzazione di se stessi per sfruttare al pieno ogni propria potenzialità.

Termine caro alle grandi multinazionali del potere economico, strutturato sul profitto. Diventa inevitabile un conflitto di paradosso tra i processi di umanizzazione e la produttività. Portando, il concetto di Empowerment ad un esame della realtà compromesso, esaltando le aspettative sopra ogni limite.

Come psicologo e psicoterapeuta non posso non riflettere ad una società orientata all’apparenza, alla cultura del self help, all’immagine di perfezione, nonché al narcisismo imperante spinto dalla cultura empowerment. Basti vedere i tanti corsi sull’autostima, sul potere personale, sulla felicità.

Dal punto di vista del clinico psicoterapeuta non mi sono indifferenti le voci dei clienti che pur mostrando un apparente status sociale e psicologico in regola, parlano attraverso un’immagine di se “grandiosa”, “ipertrofica” e poco aderente al principio di realtà, di freudiana memoria (P. Riccardi, Ogni vita è una vocazione, per un ritrovato benessere. Ed Cittadella Assisi, 2014). E’ possibile che siamo diventati drogati dello stesso Io.

C’è da chiedersi se l’idolo dell’uomo del terzo millennio non sia proprio l’Io. Dalla cultura millenaria dell’antropologia biblica, sappiamo che l’idolatria è condannata: «Non ti fare scultura alcuna né immagine alcuna delle cose che sono lassù ne’ cieli o quaggiù sulla terra o nelle acque sotto la terra; non ti prostrare dinanzi a tali cose e non servir loro…» (Esodo 20, 4).

Ha un senso psicologico e psicoterapeutico la condotta di non innalzare l’idolatria; rendere l’uomo libero, dalla schiavitù di se stesso e dei propri processi psicologici. Come a dire meglio utilizzare la tecnologia e non essere utilizzati da essi. Sappiamo per clinica oramai accertata le patologie psichiche collegate alla dipendenza dai social. L’idolo dell’Io si maschera forse dietro il bisogno di connessione? (P. Riccardi in https://www.notiziecristiane.com/bisogno-di-connessione/).

Oggi si parla di dipendenza psicologica dal cellullare e/o dal pc, che in se rappresenta il bisogno di essere connessi alla reteai Social Networks, con tutti i molteplici sintomi e conseguenze negative a tali dipendenze. Si parla di sindrome da disconnessione, NOMOFOBIA dall’inglese No-mobile, non essere collegati.

La dipendenza non configura più il piacere di un gioco, di una relazione, di un’attività, bensì accentua uno stato di bisogno di sopravvivenza. La condotta della sopravvivenza fa scavalcare ogni realtà, come emblema dei tanti profili non veritieri e le tante fake news che pullulano tra i social. Si ha bisogno di riempire l’Io e si sopravvaluta la propria realtà.

Un comportamento che non passa inosservato ad un maestro per eccellenza, Gesù Cristo, che già 2000 e passa anni fa ne evidenzia i rischi, attraverso il discorso della montagna «beati i poveri in spirto» (Mt 5,3). Per un approfondimento psicologico delle beatitudini come sistema di psicoterapia per l’uomo di oggi, P. Riccardi, Psicoterapia del cuore e Beatitudini ed. Cittadella Assisi, 2018.

Diventa ciò che sei suggerisce il filosofo Nietzsche (F. Nietzsche, Come si diventa ciò che si è., Ed Feltrinelli, 2014). Al di là delle proprie concezioni religiose, spirituali, filosofiche o psicologiche che siano c’è una saggezza antica atta a valorizzare se stessi al di là delle credulità delle scene politiche ed economiche. L’uomo del terzo millennio rischia essere e fare quello che gli altri gli dicono di essere e fare (totalitarismo) o di essere e fare quello che fanno gli altri (conformismo). Il paradosso è che più innalziamo l’Io idolo più perdiamo noi stessi.

Mi piace, come psicologo e psicoterapeuta, ma soprattutto come cristiano, citare il rabbino ebreo Hillel (Babilonia, 60 a.C. circa – Gerusalemme, 7) che in punto di morte era sorridente e il suo discepolo incredulo gli chiede: «maestro, ma sei in punto di morte e sorridi? Risponde: «sì, perché dopo tutto Dio non mi chiederà se nella vita mi sono comportato come Mosè, ma se sono stato me stesso».

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