Tra realtà e idealizzazione di se

La nostra è la cultura dell’apparire, dell’immagine del biglietto da visita

(P. Riccardi, Ogni vita è una vocazione per un ritrovato benessere ed. Cittadella Assisi 2014).

Non è un mistero lo sviluppo esponenziale dei social networks. Non è da criminalizzare i social, ma l’utilizzo smoderato ed eccessivo sta prendendo il posto dell’autoconoscenza, della ricerca della propria identità. Forse mascherano una solitudine interiore? Ne consegue un bisogno di connessione (di P. Riccardi in https://www.notiziecristiane.com/bisogno-di-connessione/).

Si parla di bisogno di connessione allo stesso modo in cui si ha bisogno di cibo per sopravvivere. Sappiamo da studi scientifici come la privazione di un bisogno porti delle conseguenze psicopatologiche. Oggi si parla di dipendenza psicologica dallo smartphone, dal pc che in se rappresenta il bisogno di essere connessi alla reteai Social Networks con tutti i molteplici sintomi e conseguenze negative a tali dipendenze.
Si parla di sindrome da disconnessione, NOMOFOBIA dall’inglese No-mobile, non essere collegati. Il semplice passatempo, il semplice piacere lascia il posto al “bisogno di connessione” teso non a vedere l’altro come confronto ma presentarsi all’altro secondo un’immagine di se idealizzata, “gonfiata”, pompata di ricerca di apparire. Senza rendersene conto, a furia di pomparsi in immagini e post artificiosi si rischia una idealizzazione di sé. Probabilmente è una delle patologie esistenziali e psicologiche che passano inosservate nel mondo occidentale di oggi, ma non al maestro per eccellenza, Gesù Cristo, che già 2000 anni fa ne evidenzia i rischi, attraverso il discorso della montagna «beati i poveri in spirto» (Mt 5,3). Per un approfondimento psicologico delle beatitudini come sistema di psicoterapia per l’uomo di oggi, P. Riccardi, Psicoterapia del cuore e Beatitudini ed. Cittadella Assisi, 2018). Idealizzandosi oltre il principio di realtà, di freudiana memoria, si rischia di costruirsi una immagine di se grandiosa.

Ma prima o poi diventa inevitabile il confronto con se stessi reali e non idealizzati. Sono differenti le situazioni conflittuali del senso di fallimento e delusione circa se stessi. Ogni attento psicoterapeuta riconosce i segni dalle descrizione nei propri pazienti all’or quando, gli stessi, si lamentano di non essere più come prima, o di meraviglia rispetto ad un fallimento relazionale: “dottore non mi aspettavo che di punto in bianco mi avrebbe lasciato”. E’ probabile che la persona avendo un’immagine di se idealizzata non scorge i propri difetti, né il motivo del conflitto relazionale. Più che imparare a stare sui social dobbiamo coltivare quell’antica arte di autoconoscenza. Divieni ciò che sei suggerisce il filosofo Nietzsche (F. Nietzsche, Come si diventa ciò che si è., Ed Feltrinelli, 2014). Secondo Socrate (470 a.C./469 a.C.–  399 a.C.), “conosci te stesso”, nel senso di riconosci in primo luogo quello che sei. Non è una strada semplice perché richiede l’arte della rinuncia da quegli atteggiamenti e comportamenti ora compulsivi ora grandiosi ora idealizzati bollati dai grandi maestri che suggeriscono quell’umiltà nel valutarsi nella giusta misura.

Essendo la nostra una cultura che privilegia l’idealizzazione di se la conseguenza è una psicopatologia narcisista quasi megalomane nel presentarsi su Facebook, su Instagram o Snapchat, secondo un modelli di successo, di carisma e fascino. Si perde di vista la realtà di se con con l’idealizzazione di se. Ci si sente legati all’illusione di essere diversi da quello che si è. Ognuno è unico e irripetibile nella sua vita. Ed è questa singolarità esistenziale che va elevata a ricchezza interiore, diversamente si perde di vista la differenza della realtà di se con l’idealizzazione di se. Senza questa consapevole differenza ci si sente legati all’illusione di essere diversi da quello che si è. Ognuno è unico e irripetibile nella sua vita. Ed è questa singolarità esistenziale che va elevata a ricchezza interiore.

Mi piace, come psicologo e psicoterapeuta, ma soprattutto come cristiano, citare il rabbino ebreo Hillel (Babilonia, 60 a.C. circa – Gerusalemme, 7) che in punto di morte era sorridente e il suo discepolo incredulo gli chiede: «maestro ma sei in punto di morte e sorridi? Risponde: «sì, perché dopo tutto Dio non mi chiederà se nella vita mi sono comportato come Mosè, ma se sono stato me stesso».

 

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