L’importanza della riserva cognitiva contro l’Alzheimer

È noto come il disturbo di Alzheimer rappresenti una delle neuropatologie progressive più gravi, capace di influire con portata disintegrante nella funzionalità quotidiana del soggetto.

In particolare gli effetti della demenza di Alzheimer iniziano con uno scadimento mnestico, che coinvolge dapprima la memoria a breve termine e poi quella a lungo termine, fino a rendere il soggetto inconsapevole della sua stessa identità. È in seguito coinvolto un peggioramento di tutte le altre funzioni cognitive e neurologiche, inerenti soprattutto il sistema nervoso centrale, fino a provocare una completa degenerazione dello stesso.

Si tratta di una delle forme di demenza più diffuse che insorge generalmente dopo i 65 anni. Bisogna tuttavia riconoscere come il morbo di Alzheimer non rappresenti un normale elemento dell’invecchiamento,  anche se il massimo fattore di rischio conosciuto è rappresentato dall’aumentare dell’età: esistono infatti dei soggetti, stimati intorno al 5% dei malati, che sviluppa il morbo tra i 40 e i 50 anni di età, e dunque in un periodo precoce.

Le cause dello sviluppo del morbo sono più note delle sue possibili cure, attualmente inesistenti. L’Alzheimer rappresenta la sesta causa di morte negli USA, e al momento non è possibile prestare nessun rimedio terapeutico se non quelli volti al rallentamento della degenerazione neurologica e ad un miglioramento della qualità della vita.

L’unica partita contro la malattia sembra da giocarsi tutta sul campo della prevenzione, e dunque dell’adozione di quegli stili di vita in grado di ritardare lo sviluppo della malattia o di creare fattori protettivi in grado di impedire il suo manifestarsi.

PREVENIRE L’ALZHEIMER È POSSIBILE: NON È TUTTA GENETICA

Ma come possiamo prevenire l’Alzheimer? Si tratta di una mera predisposizione patologica genetica, e dunque non sottoposta al miglioramento, o al contrario è possibile praticare comportamenti preventivi in grado di ridurre il rischio di sviluppo della malattia? Recenti studi hanno avallato quest’ultima ipotesi, testimoniando come le condizioni di vita di un soggetto sembrino rivestire un ruolo discriminante ai fini di una maggiore o minore reattività al morbo.

Ad esempio, appurato come un soggetto che sviluppa la malattia può vivere al massimo fino ad 8-10 anni dalla diagnosi, ci si chiede tuttavia per quale motivo alcuni individui diagnosticati come patologici abbiano possibilità di vivere fino a 20 anni dall’insorgenza del male, e come altri, pur possedendo le caratteristiche organiche in grado di sviluppare il morbo, in realtà non si ammalino mai.

In particolare uno studio pubblicato sugli Annals of Neurology, riguardante gli esami post mortem di 137 persone anziane nelle quali si era riscontrata una discrepanza tra il grado di predisposizione alla malattia e le manifestazioni cliniche della stessa, ha sottolineato come alcuni soggetti, il cui cervello mostrava i segni tipici della patologia di Alzheimer, non mostravano (o mostravano poco) i segni e sintomi della patologia. Inoltre, lo studio ha rilevato che queste persone disponevano di un maggior peso dell’organo cerebrale e di un maggior numero di neuroni rispetto ai controlli di pari età.

Questo ha aperto la strada ad ipotesi che relazionano la funzionalità della c.d. riserva cognitiva a connotati fisiologici, inerenti la grandezza del cervello e il numero delle sinapsi.

LA RISERVA COGNITIVA

Nello specifico di quanto visto sopra, i soggetti che hanno mostrato i correlati fisiologici dell’Alzheimer pur senza averlo mia sviluppato, potevano vantare dimensioni cerebrali maggiori e un maggior numero di sinapsi. La grande quantità di materia cerebrale, al pari di una “riserva”, avrebbe quindi parzialmente e temporaneamente compensato il danno neurologico legato alla patologia demenziale. Così come un più elevato numero di sinapsi cerebrali ha assicurato una maggiore riserva rispetto a soggetti che già in partenza ne presentavano un numero minore.

I dati confermano che un alto livello di “riserva cognitiva” comporta una più alta soglia di “immunità” rispetto al manifestarsi dei sintomi clinici della demenza, laddove la riserva cognitiva, sotto questo punto di vista, avrebbe un carattere prettamente fisiologico, legato a dimensioni cerebrali, numero di neuroni sinaptici, circonferenza della testa. La sua funzione quindi sarebbe quella di garantire al cervello una maggiore capacità di resilienza di fronte alle menomazioni comportate dalla malattia, una più rallentata degenerazione e una maggior compensazione anche a livello organico.

Un ulteriore versante di studi scientifici, rilevando come non sempre le caratteristiche fisiologiche appaiano legate all’insorgenza dell’Alzheimer e alla velocità degenerativa del morbo, ha interpretato la riserva cerebrale cognitiva non come un aspetto meramente organico, ma come una modalità di resilienza mediante la quale il cervello compensa le funzioni danneggiate.

Potrebbe essere definita come la capacità di ottimizzare o massimizzare le prestazioni attraverso il reclutamento differenziale di reti cerebrali e/o strategie cognitive alternative, il tutto secondo un modello di efficienza, piuttosto che un modello di soglia cut-off.
La differenza tra le due interpretazioni non è irrilevante: secondo la versione fisiologica la riserva cognitiva è una dimensione ereditaria, biologica, entitaria e non suscettibile di cambiamento.

Esiste quindi un cut-off stabilito al di sotto del quale la funzionalità cerebrale va sotto soglia e causa deplezione di sinapsi.
Secondo il modello attivo invece, la riserva cognitiva, più che un connotato fisiologico, rappresenta una capacità soggettiva che può subire trasformazioni in una modalità correlata allo stile di vita e al contesto evolutivo del soggetto.

In particolare sarebbero in grado di incrementare la riserva cognitiva fattori come il livello di scolarità, la professione, l’attività svolta durante il tempo libero e le abitudini soggettive. Numerosi studi hanno dimostrato come una maggiore attività mentale durante la vita riduca l’atrofia dell’ippocampo e del lobo temporale, costituendo quindi un fattore protettivo degli stessi (Bugg e Head, 2009).

Ma anche la dieta, l’attività fisica moderata e l’aerobica sarebbero in grado di aumentare l’efficienza della compensazione neuropatologica, in quanto contribuiscono alla riduzione del cortisolo, a sua volta collegato ad una minor produzione di glucosio nel sangue e dunque ad un decremento del colesterolo, che gioca un’azione chiave nell’aggregazione di beta amiloide, materia prima delle placche cerebrali dalle quali si origina l’Alzheimer.

Per quanto sia necessaria una predisposizione genetica al morbo ai fini dell’insorgenza dello stesso, sarebbe dunque errato credere nell’inutilità di attività preventive volte al mantenimento di uno stile di vita costruito sulla socialità, l’esercizio fisico e l’efficienza cognitiva.

È al contrario importante creare sin dall’età adulta dei fattori protettivi in grado di impedire o almeno di rallentare l’insorgenza del morbo di Alzheimer, mediante una serie di attività e stili comportamentali che possono favorire una plasticità compensatoria in grado di tamponare le perdite funzionali derivate dalla malattia, mantenendo una qualità della vita funzionale.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:

https://www.ansa.it

Bugg, J.M., Head D. (2011) Exercise moderates age-related atrophy of the medial temporal lobe, in Nuerobiol. Aging, 32(3), pp. 506-514.

Immagine tratta dal web

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